Vivere nella paura #3 – cerco di capire e continuo a fallire
Stiamo vivendo nel tempo sospeso. È un tempo nel quale mi è capitato di vivere in altri periodi della mia vita. La scrittura l’ho sempre utilizzata come strumento di elaborazione personale ma ho sempre scritto dopo però. Non ho quasi mai scritto durante, tranne nei diari personali, forse li ho persi o forse li ritrovo.
Ricomincio perché vorrò ricordare tutto, perché questo tempo sospeso per la prima volta non lo sto vivendo da sola, ma con altre persone.
Il tempo sospeso è una specie di tunnel che si manifesta quando succede qualcosa che divide il tempo del prima e il tempo del dopo. Prima della depressione, dopo la depressione, prima della morte di mamma, dopo la morte di mamma, prima dell’embolia, dopo l’embolia. Prima del coronavirus, dopo il coronavirus.
Tra il prima e il dopo coronavirus c’è il presente. Lo stiamo vivendo. Abbiamo più o meno capito tutti quando è iniziato, non sappiamo quando finirà.
Ci siamo dentro.
Ho iniziato a percepire qualcosa di familiare più o meno il 25 di febbraio in modo molto chiaro. Ero in mensa e ho provato una sensazione di repulsione. Troppa gente ammassata, troppa. Mangiamo e andiamocene ho detto. Poi ho cominciato a parlare con persone che stavano nella Zona Gialla, linea di confine sottilissima con le prime Zone Rosse. Chiedevo come stavano, cosa succedeva. Scrivevo cose, provavo a ordinare pensieri. Li leggo ora e mi sembrano obsoleti e contemporaneamente chirurgici. Erano solo tre settimane fa. Ho iniziato a sentire gli odori fortissimi, il mio corpo e il mio istinto lanciavano segnali. Poi c’è arrivata anche la mente e il pensiero si è formato, sei già stata qui. Conosci.
Succede una cosa molto precisa nel tunnel: tutto scorre nello stesso modo, tutto va avanti mentre la perpendicolare del tempo sospeso taglia sezioni intere che non vengono rimpiazzate. Perderemo qualcosa, tutti. Alcuni, qualcuno. Quello che avremo perso non verrà rimpiazzato. La complessità di questo presente è come un caleidoscopio. Lo giri, ci sono gli stessi colori, mai le stesse figure.
Per afferrare alcune cose ne perdo altre, per capirne alcune ne trascuro altre. Continuo costantemente a cercare di capire e costantemente, fallisco.
Il mio istinto di sopravvivenza parla secco. Questo sì, questo no. Ci sono momenti in cui vedo chiaramente la valanga che si stacca. Lo dico. Alcuni si spostano altri no. Lo dico. Vorrei salvarmi sempre ma non sempre mi sposto. Mi scelgo gli alleati, se devo uscire dal tunnel senza un dito o una mano, posso accettarlo ma alle mie condizioni. Poi penso che non ho titoli per dettarle e allora, io e te, siamo lo specchio l’uno dell’altra.
Bisogna aver rispetto profondo della propria angoscia. Sono concetti estranei a molti, a me familiari. Disegnano confini e i confini ora sono vitali. Per alcuni, letali. Ci è arrivata addosso la mater tenebrosa del Contrappasso. Una malattia che ci obbliga all’autoconfino (chi può) alla distanza (non tutti, ci sono quelli che non possono per la professione che fanno o motivi che non comprendo o non so ancora) che ci obbliga a considerare tutte le crepe nel muro. Alcune sono già diventate voragini, altre sono stuccabili, altre ancora sono piccole, impercettibili ma perfide e velenose.
Qualcuno ha detto che la morte dovrebbe definire la grandezza del vivere di ognuno di noi: lo è e lo sarà per chi ha già gli anticorpi necessari a capire la propria natura. La brutale democrazia di una malattia sconosciuta scoperchia tetti costruiti con gli scarti, affonda navi magnifiche senza rotta, spazza intere legioni di innocenti, punisce gli arroganti, salva gli assassini, schiaccia le brave persone, disfa distese di delicatezza. Solo tre settimane fa il presagio, oggi la realtà. Poi tu eri lì a sfottere. Abbiamo smesso per un po’ e poi abbiamo ricominciato a sfottere di nuovo. Perché? Perché sei uno scorpione. Lascia stare le rane.
Compio la mia prima settimana in isolamento. Sto parlando con un sacco di persone, familiari, amici, sconosciuti. Mi aiutano a trovare le lettere mancanti del qui e ora. Mi sono organizzata in modo militare, ho diviso la casa a zone, faccio finta di andare al lavoro in casa mia, comando la mia Enterprise. Mi sento Kirk, poi Spock poi il vuoto cosmico, la scoperta, il niente e il tutto. Se tutto finisse cosa lasci? Se ti dicessero scegli, chi? Se ti dicessero scegli cosa, cosa? Se ti dicessero hai una sola ammenda a disposizione, a chi? Se avessi un’ora per amare, chi? Le mie emozioni salgono e scendono dalle montagne russe ogni ora. Mi fanno ridere molte cose, ho momenti di allegria pura. Faccio cose che mi sembrano utili assieme ad altre persone. Faccio cose da sola. Mi intrattengo da quando sono piccola, mi racconto storie, dialoghi infiniti tra anime. Piango. Mi distraggo, mi deprimo. Cerco di comporre il puzzle della complessità e fallisco di nuovo, provo a ricalibrare la rotta ma sbatto contro un iceberg.
Trovo soluzioni a problemi che ancora non si sono presentati, immagino scenari per incastrare blocchetti come nel tetris ma poi arrivano quelli velocissimi e io, sono solo veloce.
Provo compassione, poi rabbia, indignazione, sgomento, paure di mille colori. Sono le mie, sono le tue? Di nuovo compassione. Cerco il silenzio, sento la pace per dieci minuti poi sono le ambulanze, gli elicotteri. Non smettono mai. Dico basta. Dormi. Non li sento più. Conto i giorni, chiedo la cronologia. Domani rileggerò quello che ho scritto adesso e mi parrà vecchissimo. Anche io lo sarò.