
Sette vite come i gatti (meno una)*
La Torcia Umana
Sono circa le due e mezza del pomeriggio di martedì 19 aprile quando in Piazza Cavour a Milano cerco di attraversare la strada e non ci riesco.
La gamba destra è completamente bloccata e non c’è verso di portarla avanti. I metri che mi separano dall’altro ciglio sono infiniti. Con uno sforzo sovrumano guadagno il marciapiede. Ci sono delle colonne. Mi ci appoggio. Continuo a non sentire la gamba e ho il cuore nella gola. Sto facendo molta fatica a respirare. Mi accorgerò di aver salito tre scalini senza rendermi conto perché dopo averlo fatto il mio fiato è talmente corto che ne rimango terrorizzata.
Nelle situazioni difficili il mio cervello si svuota completamente e sento solo una voce imperativa che mi parla. Non è la prima volta che mi trovo in un momento complicato ma è la prima volta che la mia voce mi dice c’è qualcosa di grave. F. lavora lì vicino e mi raggiunge in cinque minuti. Chiamo ambulanza dice, no taxi dico io. Ad arrivare al policlinico ci metto sette minuti e penso arrogante che l’ambulanza ci avrebbe messo di più. Continuo ad ascoltare la voce dentro. Scrivo delle cose per sistemare la quotidianità della mia giornata da gestire, non lascio niente in sospeso. La mia voce urla -Chiudi tutto e concentrati solo su di te. Arrivo al pronto soccorso con le palpitazioni e dopo cinque minuti di attesa mi buttano subito a fare un paio di esami veloci e mi schiaffano il braccialetto giallo. Urgenza. Allora divento una macchina che spiega, racconta, dettaglia. Sono lucida, presente, se dimentico una cosa, richiamo il medico per dirgliela. Mi fanno esami su esami. Parlo con una serie di specialisti: fino ad arrivare alle neurologhe alle quali dico salgo le scale e mi sento morire. E richiamano subito il medico: c’è da fare la TAC con contrasto.
Mi iniettano un liquido che mi pervade tutto il torace e siccome il contatto umano in luoghi del genere è una cosa fondamentale, chi esegue l’esame mi istruisce su una serie di cose da fare, dice di star tranquilla e di comunicare la sensazione che provo. Mi sento come la Torcia Umana, dico. La tizia ride, questa proprio non l’avevo mai sentita.
Capisco che la situazione è *davvero* seria quando mi spostano dall’area gialla all’area rossa. Il bracciale diventa rosso anche lui. Viene la dottoressa del turno serale. Prima di dirmi cosa mi è successo, mi dice aspetti un attimo. Va via, fa qualcosa, torna e appena i nostri occhi entrano in contatto comprendo di essere sopravvissuta a qualcosa anche se non so ancora cosa. “Abbiamo riscontrato un’embolia polmonare, ora rimarrà monitorata tutta la notte e vediamo come va, l’abbiamo presa in tempo”.
L’abbiamo presa in tempo. L’abbiamo presa in tempo. L’abbiamo presa in tempo.
La dottoressa mi dà un leggero buffetto sul braccio e capisco che per lei è il massimo del contatto che può concedere a un paziente. Il significato di quel quel buffetto è enorme. Lo scarto tra la vita e la morte è un buffetto. Ho la febbre alta, sono stanchissima, ho il mal di gola dal giorno prima, mi appiccicano una serie di elettrodi e mi collegano a un monitor, mi fanno infilare il dito dentro a una clip ed è subito un concerto inquietante e allo stesso tempo rassicurante di bip e chip. Rimango così tutta la notte a pensare a molte cose.
Alcune di queste ritengo sia giusto condividerle perché possono essere utili. Sono cose di origine molto pratica, la parte privata rimane privata, non è che ve lo devo pure spiegare. Dicevo, ho pensato e fatto cose molto pragmatiche (mi sei venuta in mente tu Simona, di quando avevi scritto che noi facciamo un lavoro pubblico ma non siamo persone pubbliche, e ho capito cosa volevi dire quando dicevi che peggio di essere trattata come una persona malata c’è di essere trattata come una persona inaffidabile):
- ho sistemato dei sospesi di lavoro che di lì a 10 giorni sarebbero dovuti essere messi a posto; rendere le persone che lavorano e dipendono da te in qualche maniera autonome, è la migliore cosa che si possa fare a se stessi; nel momento del bisogno tutto questo ti tornerà decuplicato in aiuto e comprensione condito persino da alcune forme di inaspettato affetto;
- alla mia famiglia lavorativa e cinefila (sono “famiglia” in qualche maniera, faccio un bel lavoro pieno di stimoli e sono circondata letteralmente da persone creative e che stimo moltissimo con le quali passo una quantità enorme di tempo e ho una grande passione per il cinema e la scrittura) ho scritto messaggi e detto subito la verità e quel che sapevo; avrei voluto proteggere anche me stessa dalla verità, perché mi ha stravolta, ma non conosco altro mezzo per poter riuscire a ricominciare che chiamare le cose col loro nome.
Sono stato bravo eh
20 aprile — Non chiudo occhio. Nel ps non c’è un momento di tregua, qualcuno cade dalla moto e si rompe, qualcuno è troppo ubriaco per tornare a casa, qualcuno tossisce, si lamenta, ruggisce di rabbia o dolore, parla, si muove, fa qualcosa. C’è sempre un rumore elettronico, una luce di troppo, un clangore di metallo. Arriva il mattino, non so che ore sono. Rivedo il medico che ha ordinato tutti gli esami e che mi ha salvato la pelle. Si avvicina -L’ha scampata bella ma io sono stato bravo eh, e ride. Mi mette una mano sul braccio e per tutto il tempo non la toglie. -Ha fatto il suo lavoro no? dico io. E lui -Sì dai. Poi mi dice -La faccio ricoverare in reparto, le prometto che nel primo pomeriggio va su e la tolgo da qui. Io penso solo bitches, i’m still here alive and kicking. -Come sto? -Stabile, risponde e la cura la iniziamo subito.
Ci sono dei pazienti nel mio stesso stato che non possono muoversi assolutamente, io posso. Non è sicuramente stato il mio stile di vita a portarmi qui dentro. Il mio stile di vita poco sedentario (contapassi alla mano faccio almeno 5km a piedi ogni giorno) ha reso il cuore forte che ha sopportato tutto. Non so se avete mai sentito il rumore che fa il cuore: è letteralmente il rumore della vita. Al reparto di pneumologia mi ci portano con l’ambulanza e io dico, -Amici è la prima volta che salgo su un’ambulanza e loro mi rispondono -Ah sì? Allora facciamo il giro lungo così fai il tour come si deve!
Le persone che incontro sono tutte gentili o un po’ matte, chiacchierone, grandi pacche sulle spalle, parecchio contatto umano e allo stesso tempo sano distacco. Per la prima volta dopo 20 ore sento il mondo fuori.
Da quel momento ridiventa tutto una prima volta. Sento l’aria pungente della primavera, il sapore dell’acqua, il calore di un abbraccio, la preoccupazione di chi mi vuole bene, il gusto della mela cotta, le lenzuola pulite, l’acqua sulla faccia, l’ago nel braccio, il polpaccio che non “tace” un secondo. Penso che stare così male è stata la mia fortuna. Ad alcuni non capita. Penso che una seconda possibilità è qualcosa di cui andare grati senza troppe smancerie e al netto di ogni retorica. Penso che ci sono molte cose da pensare e che le capirò strada facendo.
Signora M.
La mia compagna di stanza è di origine romena, arriva da Foggia. Ossigeno e respiratore durante le ore notturne. La figlia sta qui con lei giorno e notte. Sviluppiamo un rapporto di mutuo soccorso senza forzature. Nel giro di tre giorni abbiamo le nostre abitudini regolate e consolidate. Il tempo dell’ospedale viaggia in modo diverso. Non ci sono barriere, solo essenza. Senti subito se una persona è buona oppure no. Si sviluppa un radar. La Signora M. e la sua famiglia sono delle persone buone e fortissime. Mi cambiano la stanza mentre la Signora M. cambia reparto. A Foggia le hanno diagnosticato una tubercolosi che non esisteva, ora le devono fare biopsia. Nei giorni successivi chiedo di lei e mi arrivano notizie a spizzichi. Il reparto è piccolo e se superi la settimana di degenza cambia tutto, cominciano a ricordarsi il tuo nome, cominciano i legami, le simpatie e le antipatie. Mi manderanno a casa dopo 10 giorni e mentre sono nel corridoio che cammino avanti e indietro (muoversi nel mio caso è un bene assoluto) incontro i figli della Signora M. Il maschio, un energumeno tatuato e la sorella, magra e secca, dietro. Mi vedono e scoppiano a piangere -Hanno detto giorni. Li abbraccio e gli dico ci sono passata è successo anche alla mia mamma. L’energumeno mi guarda -Signora ma tu vai a casa, sono contento che stai meglio. E poi -Ma come si fa a sopportare una cosa del genere? -Non lo so, non lo so, ti posso solo dire che tua madre la devi portare dentro di te ogni giorno e che sopravviverai anche tu.
Signora B.
Nella mia nuova stanza c’è la Signora B. che arriva dal Perù e che ha una malattia leggendaria: il lupus. Ha un sacco di problemi. Un giorno sta malissimo, quello dopo rifiorisce, quello dopo ancora scende negli inferi di un nuovo sintomo. La sua vita è una continua sorpresa. La Signora B. ha tre figli: due maschi e una femmina che si autodefiniscono il braccio e la mente. Sono un’organizzatissima macchina da guerra. La Signora B. non è mai da sola, è circondata da amore in modo cristallino. Mi parlerà per la prima volta dopo 18 ore dalla mia presenza nella stanza perché io intercettando il suo sguardo le chiedo -Ma sei triste? E lei come è nella sua natura di essere trasparente mi risponde -Sì. La Signora B. non si lamenterà mai e mi insegnerà la pazienza: ho contato i lividi dei prelievi, i buchi, i segni degli elettrodi e degli strumenti usati su di me, sono 15. Lei ne ha almeno il doppio e non si lamenta mai. Ma nemmeno subisce: a volte si dimentica le cose, ma sono tutte cose di secondaria importanza. Le cose fondamentali le sa tutte. Non perde un colpo. La Signora B. appena capirà che mi stanno per dimettere — dopo un paio di tentativi falliti perché avevo ancora dei valori sballati — mi dirà la frase più lunga di tutta la nostra convivenza -Sono tanto felice che torni alla tua casa. Le ho lasciato le riviste, la mousse alla mela, i grissini e i biscotti ma soprattutto il cioccolato fondente che mangiavamo al mattino dopo i prelievi. Signora B. tu sei ciò che più si avvicina alla definizione di santa che io abbia mai conosciuto.
Dopo
Faccio un esame motorio monitorato e dopo cinque giorni che non salgo le scale devo affrontare un piano. Ho ancora le palpitazioni ma l’ossigenazione è buona. Mi manderanno a casa con una relazione di dimissione di 8 pagine. Ho un piano terapeutico, ho esami di controllo già quasi tutti prenotati per i prossimi mesi.
I giorni a casa sono stati e sono spinosi. Se durante la degenza ti parla solo la sopravvivenza e tutto ciò che ti accade è vita allo stato più puro e primitivo, quando torni a casa comincia a parlarti la paura. Sei da sola. Con mille dubbi, mille questioni, mille domande. Ad alcune ho già ricevuto risposta per altre ci vorrà tempo. Altre ancora, rimarranno insoddisfatte.
Gli anglosassoni hanno delle parole perfette e codificate per queste faccende: it’s a journey. Tradotto significa: percorso. Mi ci sto muovendo incerta, guidata dal mio istinto, da uno zaino di cose essenziali e da un nuovo tipo di attenzione. Ho persino delle precise richieste: non mi dite cose sciocche, non mi dite cretinate new age, non mi raccontate bugie sulla forza di reagire, non mi venite a vendere la vostra paura dell’ignoto come se fosse sostegno. Misuratevi con la vostra essenza, continuate a vivere o cominciate a farlo, pulite le vostre vene dalle scorie e dai detriti, lasciate che la notte vi suggerisca progetti folli e il mattino vi restituisca sogni da realizzare, smettete subito di farvi del male, restituite a voi stessi le ragioni che vi tengono in piedi ogni giorno. Quando ci vedremo, io porterò le mie vecchie care convinzioni, ne demolirò senza pietà altre e ne troverò di nuove. Siate decenti e siate dignitosi.
* Ma i gatti non ne avevano nove di vite? Mi pare di sentirlo il ronzio nelle vostre teste. Siccome vi conosco per i puntacazzisti che siete sappiate che in Italia il detto dice sette, è nei paesi anglosassoni (la mia seconda patria adottiva) che sono nove. In ogni caso per non dispiacere nessuno, facciamo pure che sono otto, ché a me di sapere di aver a disposizione un’altra vita, è un regalo.